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GLI ARTISTI

Vincenzo Cannizzaro

(Reggio Calabria 1740 – 1768)

La prima biografia di Vincenzo Cannizzaro, a cura di Paolo Pellicano (Reggio Calabria, 1838), insigne studioso calabrese, ne fissava la data di nascita «verso il giugno 1742» e ne tratteggiava, non senza alcune importanti omissioni, il percorso formativo iniziato nella città natale presso Antonino Cilea, proseguito a Napoli alla scuola di Francesco De Mura dal 1758, ed infine a Roma presso il lucchese Pompeo Batoni. Il biografo ricordava, inoltre, la premiazione con medaglia d’oro al concorso indetto dalla Reale Accademia di Belle Arti di Parma nel 1766. Successivi studi e ricerche d’archivio hanno consentito di arricchire le informazioni fornite dal Pellicano e correggere alcuni dati biografici quale la nascita da anticiparsi al 1740. Giunto a Roma, secondo le fonti, intorno al 1763, il Cannizzaro frequentò la prestigiosa Accademia di San Luca ottenendo diversi riconoscimenti di cui il primo già nel 1765 quale alunno della Scuola di Nudo e l’anno successivo partecipando al Concorso clementino di Pittura indetto dalla stessa Accademia. Sempre nel 1766 inviava da Roma alla Reale Accademia di Parma la Trasfigurazione sul monte Tabor ispirata al capolavoro del grande Raffaello risultando vincitore.

Rientrato in patria nel marzo del 1767 perché gravemente malato, il giovane  chiudeva la sua breve esistenza il 24 giugno del 1768 e veniva sepolto nell’antichissima Cappella del SS. Sacramento della Cattedrale reggina.

Dopo la sua morte la medaglia della premiazione al concorso di Parma veniva consegnata, in adempimento di una sua precisa volontà, dal padre Giovanbattista ai frati Cappuccini del Convento di Maria SS. della Consolazione.

I Re Magi davanti ad Erode

Vincenzo Cannizzaro, Autoritratto

Antonino Cilea

(Reggio Calabria 1683 – doc. 1754)

Le ricerche condotte negli ultimi anni hanno consentitodi acquisire alcuni dati (in parte da accertare) sulla vita e l’attività artistica di Antonino Cilea, permettendoinoltre di compilare un catalogo delle opere presenti sul territorio regionale.La figura del pittore reggino va letta nel contesto delle relazioni e degli scambi che animarono la cultura artistica del Settecento in Calabria con implicazioni ben più ampie di quelle locali, con un interessante gioco di scambi ed influenze imperniato su personalità artistiche cardine della cultura tardo baroccanapoletana e romana e sull’attività delle loro rinomate botteghe, alle quali si aggiunge il polo attrattore della rinnovata Accademia di San Luca che nell’Urbe diventava sempre più metaambita di molti di artisti. Dopo i plausibili contatti con esponenti dell’ambiente messinese, Cilea raggiunse Roma dove frequentòuna ancora ignota bottega di un artista affermato, presupposto fondamentale per partecipareai concorsiclementini dell’Accademia romana,risultando1706 vincitore del terzo premio della seconda classe di pittura.

Considerando le opere identificate in vari centri della Calabria, talune anche in Sicilia,è probabile che il nostro Cilea di ritorno da Roma non si sia limitato a rapportarsi con l’ambiente reggino, ma abbia intessuto una serie di rapporti con artisti calabresi e con personalità di spicco del clero fra cui il vescovo di Umbriatico, Domenico Antonio Peronaci che nella sua collezione vantava ben 34 tele del pittore. La più antica fonte che accenna alla sua attività artistica è quella del canonico reggino Paolo Pellicano del 1838 che ricorda «un tal Cilea reggino, valente pittore di quel tempo», maestro del giovanissimo Vincenzo Cannizzaro (174o-1768), astro della pittura calabrese del Settecento.

Sebastiano Conca

(Gaeta, 1680 – 1764)

Nonostante l’iniziale formazione napoletana presso la scuola del Solimena, Sebastiano Conca è da considerarsi uno dei maggiori esponenti della scuola pittorica romana del XVIII secolo. Trasferitosi nel 1707 a Roma, incontrò infatti un’immediata e straordinaria fortuna. Nel 1714 entrò a far parte della Congregazione dei Virtuosi al Pantheon e, nello stesso anno, gli fu commissionata la prima opera pubblica dal cardinal Tommaso Maria Ferrari: una pala per la cappella del Rosario in San Clemente. La tela riscosse un notevole successo, tanto che papa Clemente XI lo volle nel novero dei pittori che affrescavano alcuni ambienti nella chiesa San Giovanni in Laterano. Nel 1718 divenne Accademico di S. Luca – la prestigiosa istituzione di cui diventerà nel 1732 anche Principe – e i suoi committenti si fecero assai numerosi, soprattutto tra le schiere dei cardinali e regnanti esteri. Il Conca diede prova di sapersi sintonizzare sulla temperie culturale di quella prima metà secolo, di fatto ereditando e continuando la tradizione decorativa monumentale del Maratta, ma aggiornandola nella vena un po’ compromissoria del “classicismo barocco” attraverso una visione soggettiva, atmosferica e sognante coniugata ad una maggiore scioltezza di composizione derivante da Luca Giordano. Forse stanco di tanta attività e di tanto successo, il Conca intorno al 1752 ritornò a Napoli, continuando la sua attività nel Regno delle Due Siciliee partecipando, soprattutto grazie alla benevolenza e alla stima che di lui aveva Luigi Vanvitelli, ad importanti imprese decorative.Dopo aver istruito all’arte della pittura una schiera foltissima di allievi, tra cui ricordiamo Raphael Mengs e Corrado Giaquinto, Sebastiano Conca moriva a Napoli nel 1764.

I Re Magi davanti ad Erode

Sebastiano Conca

Luca Giordano

(Napoli 1634 – 1705)

Luca Giordano, figlio di un modesto pittore, si formònella capitale partenopea “all’ombra” delle esperienze pittoriche che avevano fortemente segnato la vita artistica della città, dal passaggio di Caravaggio fino alle esperienze di Mattia Preti. Le prime opere attribuite al Giordano, degli inizi degli anni Cinquanta, sono infatti un tributo alla pittura di impronta caravaggesca e un esercizio sull’arte di Jusepe de Ribera, alla cui bottega è possibile che fosse stato introdotto dal padre Antonio che era legato al pittore spagnolo da un rapporto di amicizia. L’incontro con Mattia Preti, avvenuto a Napoli dopo il 1653, ebbe come conseguenza una profonda meditazione sulle fonti del pittore calabrese, Rubens in primo luogo, e una inclinazione progressiva della sua produzione verso suggestioni più prettamente barocche. Lo stile virtuosistico e l’inesauribile fantasia del Giordano si sarebbero poi arricchiti grazie a viaggi e commissioni tra Roma e il Veneto, consentendogli di accostare la sua sensibilità alla pittura di Pietro da Cortona e del Tintoretto, del Veronese e di Tiziano. Nel 1657 inizia un rapporto continuativo con l’autorità vicereale a Napoli, che avvicina il Giordano a una serie di personalità spagnole, fino ad esser convocato da re Carlo II per la decorazione del monastero dell’Escoriale di diverse chiese e residenze reali. La pittura del Giordano giunge in questi anni a esiti di una particolare intensità espressiva favorita dalla matura riflessione sulla contemporanea pittura spagnola di Bartolomé Esteban Murillo e di Claudio Coello. Pochi anni dopo essere tornato a Napoli, il Giordano moriva il 3 gennaio 1705

I Re Magi davanti ad Erode

Luca Giordano

Pompeo Batoni

(Lucca 1708 – Roma 1787)

Pompeo Batoni iniziò a studiare il disegno nella bottega orafa paterna e, contestualmente, si avvicinò alla pittura sotto la direzione di alcuni precettori lucchesi, finché la “pensione” del suo protettore, Alessandro Guinigi, non gli permise di trasferirsi a Roma nel 1727, dove si scelse come maestri Sebastiano Conca e poi Agostino Masucci. Fu, però, grazie al contatto con l’Imperiali che entrò in contatto con il collezionismo inglese per il quale riprodusse i capolavori di Raffaello, artista del quale fu grandissimo estimatore, e le celebrate antichità classiche della città pontificia. Intorno al 1740 godeva già di considerazione nell’ambiente romano e numerose si susseguirono le commissioni di dipinti di soggetto religioso, allegorico e mitologico. Nel 1741 entrò a far parte dell’Accademia di S. Luca, su presentazione di Sebastiano Conca, all’epoca principe dell’Accademia, e dal 1761 divenne associato all’Accademia Nazionale di Belle Arti di Parma. Assai apprezzato e richiesto come ritrattistada nobiluomini inglesi di passaggio a Roma, regnanti e potenti porporati, aggiornanò il genere del ritratto alla moda degli scavi: il personaggio, davanti a rovine o statue antiche o suggestivi sfondi della campagna romana, rivaleggia per dignità aulica di posa con quella delle statue antiche.Legata alla tradizione classicista rinascimentale e seicentesca la sua pittura mosse da queste radici per approdare ad uno stile “moderno” intriso di grazia e di naturalezza, sempre attento al disegno e alla distribuzione compositiva.Il Batonimorì a Roma il 4 febbraio 1787.

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Pompeo Batoni

Giuseppe Pascaletti

(Fiumefreddo Bruzio 1699 – 1757)

Giuseppe Pascaletti nacque a Fiumefreddo Bruzio da una famiglia nella piccola nobiltà locale. Dei primi anni di vita del pittore si conosce ben poco, ma si ipotizza una prima formazione romana e, forse, un apprendistato presso la bottega del Solimena a Napoli. Nella città pontificia il Pascaletti sarebbe entrato in contatto con gli ambienti di Sebastiano Conca, traendone un fondamentale insegnamento. Tale argomentazione nasce dal fatto che gran parte della produzione artistica calabrese del pittore si rifà strettamente a quella del celebrato maestro e al fatto che è documentato come nel 1738, egli venisse presentato proprio dal Conca alla Congregazione dei Virtuosi del Pantheon. La frequentazione della Congregazione aiuterebbe anche a “decifrare” lo stile del pittore fiumefreddesesulla scorta di possibili frequentazioni con personalità quali Filippo Iuvarra, Corrado Giaquinto e Luigi Vanvitelli. Nel 1747 Pascaletti era comunque già di ritorno in Calabria, come attestato dall’atto di matrimonio con Teresa de Ponzo, esponente di una famiglia baronale di Fiumefreddo. Ritornato in terra natia, soddisfece varie committenze di ordini religiosi e confraternite, di ricchi e colti ecclesiastici e di nobili locali, aggiornando la cultura calabrese di metà secolo sulle componenti classiciste del Settecento romano. Moriva nel suo palazzo nel 1757, a 58 anni, e veniva seppellito nella cappella di famiglia della chiesa di S. Francesco di Paola.

Francesco De Mura

(Napoli, 1696 – 1782)

Dopo un breve inizio nella bottega di Domenico Viola, Francesco de Mura passò a quella del Solimena,presso cui rimase all’incirca vent’anni, e che ebbe grande incidenza sulla sua formazione e sulle opere della prima maturità. Tuttavia, già sul finire del terzo e l’inizio del quarto decennio del Settecento, si nota nella sua cifra stilistica e con un leggero distacco dai modi del maestro si volge ad effetti di più sottile e contenuto intimismo. Questa disposizione a tradurre in eleganti immagini “i fragili affetti”, che animano il mondo contemporaneo del melodramma metastasiano, appare evidente, e in maniera felice, in una serie di dipinti eseguiti dopo il breve, quanto fortunato, soggiorno torinese (1741-43). Ma già prima, sulla scorta della lezione del Giordano e del De Matteis, nonché di Corrado Giaquinto, il De Mura riuscì a contemperare le tendenze del classicismo solimanesco e le istanze del rococò europeo in risultati di ampio respiro. L’apertura in senso internazionale lo rese unico a Napoli, tanto che nel 1747, essendo morto il Solimena, l’autorevole abate D. Placido Troyli, patrizio e teologo, ebbe a riconoscere il De Mura come “il primo dipintore oggidì in Napoli” (Istoria generale del Reame di Napoli, Napoli, 1752). La sua vastissima produzione ed il largo consenso che l’accompagnò fecero si che moltifortunati soggetti venissero – anche con piccole varianti –più volte replicati sia dal De Muraper soddisfare le numerose richieste, sia dai suoi numerosi allievi per altre chiese napoletane e di paesi e regioni vicine, come la Calabria.

Giacinto Diano

(Pozzuoli, 1731 – Napoli, 1804)

Documentato a Napoli dal 1752, probabilmente il Diano maturò la sua prima formazione presso il De Mura ai cui canoni restò legata tutta la sua produzione, con particolare evidenza nel periodo giovanile. Gli anni immediatamente successivi, dopo un breve soggiorno romano e i contatti con Luigi Vanvitelli, lo videro volto al tentativo di conciliare le esigenze decorative della tradizione napoletana del primo Settecento con le recenti tendenze della cultura pittorica romana. Le tele a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo sono caratterizzate da una straordinaria bellezza cromatica, daltonalità vibranti e da un’elegante e sottile atmosfera. Come il suo maestro, Diano accolse all’interno del suo linguaggio pittorico delle coincidenze con espressioni tipiche del teatro metastasiano, sia perché queste avevano pur trovato già accoglienza all’interno del linguaggio demuriano, sia perché tali formulazioni riuscirono particolarmente efficaci per la propaganda religiosa del momento, sollecitata dall’azione vigile e suadente di Alfonso Maria de’ Liguori. Su proposta del Vanvitelli, all’inizio degli anni Settanta, ottenne l’incarico di professore nella Real Accademia del Disegno. Agli inizi degli anni ’60 si datano i dipinti eseguiti per la chiesa dell’Immacolata di Scilla che denotano accanto al persistere dell’influenza del linguaggio demuriano un aggiornamento sui modi più classicheggianti della pittura romana di metà secolo